Medicalizzare la vita
La natura tradizionale del farmaco è quella di essere un rimedio. Dove la vita manifesta un disfunzionamento (nel corpo come nel pensiero) la promessa del farmaco è quella di ripristinare il livello normale di efficienza guastato dall’irruzione della malattia.
Nel nostro tempo, all’estensione inflattiva di questa promessa che tende sempre più a medicalizzare la vita (i rimedi si sono moltiplicati grazie ai progressi della medicina, ma anche agli interessi dell’industria farmaceutica), dobbiamo aggiungere qualcosa di inedito: una versione del farmaco non più come rimedio ma come potenziamento della vita.
Se la versione tradizionale, ippocratica, del farmaco-rimedio rimane nel solco classico della filosofia della medicina poiché il farmaco dovrebbe curare la causa della malattia che il paziente percepisce nella sofferenza sintomatica, questa nuova versione del farmaco come potenziamento scavalca decisamente quella filosofia. Non si tratta più di curare la malattia che ci affligge, ma di offrire alla vita l’illusione di una sua espansione e di un suo rafforzamento artificiale.
La cura lascia qui il posto ad un doping indotto che esalta le funzioni del corpo e del pensiero: dal viagra all’uso degli psicostimolanti, dal testosterone all’abuso di antidolorifici, l’industria del farmaco offre sul mercato provvedimenti chimici che hanno come obbiettivo l’enfatizzazione delle risorse dell’organismo più che la cura tradizionale delle sue malattie.
Al fondo di questo cambiamento di paradigma troviamo un mito ideologico del nostro tempo: l’esaltazione di quello che già Marcuse alla fine degli anni Cinquanta in Eros e Civiltà battezzava comeprincipio di prestazione.
Di cosa si tratta?
Di una forma inedita di sfruttamento. Non solo quello dell’uomo sull’uomo analizzato da Marx, ma quello che impone ad ogni uomo di vincere su se stesso, di imporsi su se stesso come macchina efficiente, capace di prestazioni senza difetto. Un falso ideale di grande salute sembra così inondare la nostra vita. Rifiuto del senso del limite, esorcismo dell’irreversibilità del tempo, cancellazione di ogni forma di mancanza, autoaffermazione di se stessi. Questo ideale performativo accompagna il valore ideologico attribuito dal nostro tempo alla crescita economica, all’espansione illimitata dei mercati, alla rincorsa folle del profitto.
Nel suo ultimo film titolato The Wolf of wall street,Martin Scorsese offre un ritratto preciso e sconcertante di questo mito mostrando la sua tendenza a collassare su se stesso. L’ideale cinico del potenziamento del proprio Ego viene perseguito in una modalità predatoria e perennemente insoddisfatta. Il consumo compulsivo di sostanze chimiche di ogni genere sembra coltivare una efficienza della macchina-uomo ridotta ad una macchina di godimento acefala.
Come presi in una corsa impazzita verso una meta che non esiste, i personaggi di questo film offrono la rappresentazione di una volontà di potenza ormai priva di ogni senso di responsabilità che non può non evocare il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
La versione ascetica del capitalismo weberiano che costruisce il suo successo sulla rinuncia al godimento immediato, sull’ideale del lavoro come “freno dell’appetito”, lascia il posto ad un capitalismo che odia ogni forma di rinuncia e che consuma se stesso manifestandosi come una pura volontà di godimento. E’ in questa spirale mortifera dobbiamo inserire le nuove illusioni dei farmaci finalizzati a potenziare il principio di prestazione.
Si tratta di una nuova forma di schiavitù: la vita viene sottoposta ad un doping permanente che s’intreccia con l’esibizione di una avidità pulsionale totalmente sregolata.
Risultato: la caduta di ogni dimensione solidale dell’esistenza, il cinismo narcisistico, la vacuità, la sconfitta dell’amore, la distruzione della vita.